Parte
quarta
“Gli
anni del Big Bang: 1957-1966”
Dalla
Università di Leicester a Clare Hall
Lo sguardo eccentrico (cap. 16)
Popolare
Lo scenario alla metà degli anni cinquanta è
diverso dalla necessità di rifondazione che si ha dopo la Seconda guerra
mondiale.
Nel 1956 gli addetti al settore terziario
superano per la prima volta negli Stati Uniti i lavoratori dell’industria e
dell’agricoltura. È l’inizio di una modifica dell’intera società di cui si
coglierà l’importanza solo alcuni decenni dopo. Il futuro è arrivato.
Il duro Espressionismo astratto degli anni
immediatamente successivi alla guerra (neorealista) è sostituito nella seconda
parte degli anni cinquanta con ricerche che si denominano “POP”, popolari. Lo
sguardo dell’arte si volge verso gli oggetti della vita quotidiana. Il fumetto,
la pubblicità, il culto delle star del cinema e la musica dei giovani entrano
entrano nell’immaginario contemporaneo.
Inizia nel Nord America James Johns che volge uno sguardo perplesso ad alcuni oggetti
simbolo della società americana, seguono Andy
Warhol, che dalla pubblicità approda all’arte, e Roy Linchtenstein, o Claes
Oldenburg che assembla hamburger realizzati in ceramica.
In Italia Burri
che cuciva sacchi abbandonati, a cui segue Mimmo Rotella che scorticava i manifesti dei film.
Questo nuovo
mondo si è trasformato in soggetto. La famosa
lattina con l’etichetta “Merda di Artista” del 1961 e la firma di Piero Manzoni ne è la prova estrema.
Yves Klein muore nel 1962 dopo aver
lasciato un’icona per gli anni a venire: “il salto”, fa parte di una serie di
opere chiamate “blu” a cui Domenico Modugno si ispira alla famosa canzone Nel
blu dipinto di blu, mentre Klein si
ispira a sua volta alla canzone Volare.
La tecnologia diffonde e moltiplica l’arte
inventando nuove forme d’esteticità diffusa.
In Francia nel 1957 si fondo l’Internazionale
situazionista e l’architetto israeliano Yona
Friedman con Eckhard Schulze-Fielitz,
Georges Emmerich, Jerzy Soltan, fonda il Group d’Etude d’Architecture
Mobile cominciando ad elaborare disegni e progetti basati appunto sulla
trasportabilità delle strutture in un’impostazione dichiaratamente anti CIAM.
In Gran Bretagna i processi di riscoperta
“popolare” nel mondo si travasano nel campo dell’architettura quando un gruppo
di giovani pubblica nel 1961 la rivista “Archigram” che ibrida i generi. Le
proposte dei sei architetti (Warren
Chalk, Peter Cook, Dennis Crompton, David Greene, Ron Herron, Michael Webb)
consistono in una serie di idee nuove presentate con una tecnica che è il
simbolo della nuova e poliedrica società contemporanea: il collage. Moduli abitativi che si attaccano a grandi strutture.
Esplorare nuovi temi, assemblare pratiche
eterogenee, ibridare i confini disciplinari, rivela l’ottimismo fiducioso delle
possibilità che offre il nuovo mondo.
Il collage
è tecnica che si travasa anche nel
concetto di architettura.
I professori degli Archigram James Gowan e James Stirling creano nell’Università di Leicester un’opera che
assembla con brutale audacia il patrimonio degli architetti della generazione
precedente: torre a sbalzo e superficie ipostola alle Officine del gas e alle
disconnessioni costruttiviste.
Anche in Giappone si forma un gruppo che opera con uno spirito
simile agli Archigram, con il nome di Metabolisti che indica la volontà di
concentrarsi sulle tematiche di costante mutazione nella metropoli con un
accento biologico.
In Austria e poi in Italia il Futurismo viene
riproposto all’attenzione.
Torna di grande popolarità Richard Buckminster Fuller che sino agli
anni trenta aveva continuato a proporre realizzazioni completamente
industrializzate. La sua famosa cupola geodetica si presta a creare grandi
ambienti ad atmosfera controllata, ma anche micro-abitazioni da far approdare
nei contesti più diversi. La piccola casa-capsula come un UFO edilizio si
confronta con la grande distesa luccicante di un’infinita città regione. Le
cupole geodetiche possono anche ospitare grandi spazi espositivi.
Il Big Bang
Negli anni sessanta c’è la nascita di un
atteggiamento “esclusivista”, l’architettura è disciplina polisemica.
L’architettura affermatasi negli anni venti
aveva cambiato completamente i contenuti delle tre tradizionali aree, questo
processo verso l’intima coerenza del progetto aveva trovato il suo apice
nell’opera di Louis Kahn.
Il movimento che si attua nell’architettura
degli anni sessanta è in direzione opposta: è un movimento nei fatti
antikahniano che da un’attrazione verso la “sintesi”. È il Big Bang dell’architettura.
Questo atteggiamento esclusivista non si
applica però solo all’esalazione tecnologico-costruttiva.
Per Christopher
Alexander è il frutto di un
albero di requisiti di ordine plastico, è l’esplicitazione di tutti gli
attributi funzionali e la parallela esclusione degli altri.
L’architettura tende non solo a trasformarsi
nei risultati rispetto a quella degli anni precedenti, ma soprattutto si
allontana dal suo tradizionale statuto per essere attratta in un caso dalle
scienze esatte.
La cultura architettonica tende ora a
valorizzare le singolarità. Si tende a costruire valore, non più sulla
centralità, ma sull’eccentricità, non più sulla ragionevolezza, ma
sull’esclusività.
Lo studioso britannico Colin Rowe diventa il campione di una lettura formalistica che
taglia i ponti con la complessità di relazioni sociali, costruttive e storiche
dell’architettura per centrare l’attenzione esclusivamente sui fenomeni
sintattici.
Su un fronte tematicamente diverso operano
gli scritti di Reyner Banham e di Leonardo Benevolo.
La storia
pop
Come è noto la storia dell’arte o dell’architettura non faceva
parte delle materie di insegnamento del Bauhaus ed era tenuta all’esterno dalla
corrente principale del funzionalismo.
L’Italia è il paese in cui si afferma un
approccio diverso, si fa strada nel secondo dopoguerra un’dea moderna dell’uso
della storia innestata dalle lezioni del filosofo Benedetto Croce.
Da una parte vi è il fronte degli storici di
professione, seguaci della tradizione di Gustavo
Giovannoni che continuano a creare edifici che propongono partiti. Accanto
a questa posizione vi è quella di architetti che guardano non solo alle
articolazioni plastiche e agli stili antichi, ma anche a una sorta di storia
antropologica dei modi di abitare.
Saverio Muratori è il
capostipite di questa impostazione e formerà una piccola, ma forte scuola di
pensiero. Attorno alla rinnovata “Casabella” diretta da Ernesto Nathan Rogers si opera una particolare ibridazione.
Ignazio Gardella tealizza una casa concepita alle zattere di Venezia o gli splendidi
volumi puri delle sue case Bossalino ad Alessandria. Franco Albini crea nel 1956 un Grande magazzino in ossatura
metallica a Roma a ridosso delle mura aureliane, ricco di tessiture quasi
barocche; Rogers e il suo studio BBPR crea nella Torre Velasca a Milano
nel 1958 un ibrido interessante e inquietante tra un grattacielo e una torre
medioevale che solleva aspre critiche internazionali.
Nel campo delle sistemazioni museali gli
architetti italiani fanno scuola. Creano spazi dinamici nelle vecchie sale intervenendo
con nuovi squarci e strutture, incastrano gli oggetti antichi in vere e proprie
rappresentazioni con strutture ora metalliche ora di vetro che fanno attori
vivi della scena. I BBPR operano
anche nel restauro del Castello sforzesco a Milano.
Il grande propugnatore di questo utilizzo moderno della storia è Bruno Zevi.
In una prima fase dimostra con il suo libro “Saper vedere
l’architettura” che è possibile rileggere le grandi opere dell’architettura del
passato utilizzando una sensibilità contemporanea attenta alle concezioni
spaziali che le sottendono, successivamente scrivendo “Storia dell’architettura
moderna” che ricostruisce una complessità di fermenti, motivi e personalità.
Sul finire degli anni cinquanta e nei primi anni sessanta la posizione di Zevi si radicalizza.
Esso demolisce il tipo del tempio greco e la
conseguente mitizzazione neoclassica per rivendicare l’eccezione e la
trasgressione dell’Eretteo di Filocle ad Atene. Del mondo romano esalta lo
spazio interno della Minerva Medica e il Continuum della Villa Adriana. Ama
l’edilizia minore e il Gotico di Arnolfo
di Cambio e il suo palazzo Vecchio a Firenze.
Isole e
penisole
In Arizona opera, a partire dalla seconda metà degli anni
cinquanta, l’italiano Paolo Soleri. Dopo essere stato aiutante di Wright nel primo dopoguerra nel 1954
torna in Arizona e si dedica a realizzare un’architettura che è la
raffigurazione del proprio pensiero complessivo: è un mondo contro lo spreco
della fantasia, contro la follia della città diffusa e dell’automobile, contro
l’opulenza capitalistica, contro le lobby professionali e politiche.
La chiave della sua ricerca sta
nell’equilibrio tra l’artefatto umano e le forze della natura, costruisce le
sue architetture come fa con le proprie terrecotte.
Ma anche altri architetti danno vita a un
proprio mondo espressivo.
Sempre in America opera Bruce Goff che estremizza l’approccio sperimentale di ogni progetto una soluzione. Lui cerca di
volta in volta un assemblaggio ludico di componenti e spazi in cui creatività
si somma a creatività.
L’architetto Herb Greene si
forma con Goff e lavora spesso con
artisti: crea con la propria casa un canto di informalità libera, incarnando in
profondità le aspirazioni più profonde della cultura del Sud.
In Finlandia opera Reima Pietila che comincia nel 1961 la realizzazione della Casa
dello studente Dipoli a Otaniemi. Affonda in una ricerca viscerale e in
un’espressività tardo-romana.
In Italia opera con un’inesausta passione per
il particolare vibrato all’infinito e con una sensibilità formidabile per lo
spazio.
In questi stessi anni il toscano Giovanni Michelucci continua un personale percorso verso la
combinazione nell’architettura di un paesaggio antropizzato e simbolico a un
tempo che porta avanti in alcune pregevoli realizzazioni come la Casa sulla
autostrada del 1964. Allievo e suo amico, Leonardo
Ricci crea veramente due isole di civiltà architettonica e umana: il
villaggio che costruisce alle porte di Firenze.
In Israele operano Alfred Neuman e Zvi Hecker
in una ricerca accanita verso organizzazioni cellulari che hanno nell’habitat
realizzato dal giovane architetto Moshe
Safdie all’Expo di Montreal del 1967.
La figura di Adriano Olivetti promuove a Ivrea un’area di sperimentazione
illuminata che investe i temi dell’urbanistica.
Un’altra isola è quella del pittore olandese Constant Nieuwenhuys, che si affianca in
alcune fasi ad altri artisti chiamati “situazionisti”. A partire dal 1959 si
concentra sulla creazione e progettazione di uno spazio urbano che chiama “New
Babylon” e pone al centro una condizione nomade ed errante dell’abitare.
La crisi della città (cap. 17)
Critiche in
movimento
La nuova città sarebbe popolata da grandi
edifici multipiano formati da cellule identiche l’una all’altra, da strade
carrabili larghe ma anonime, da aree di terreno degradate.
Le case, le strade, gli spazi sarebbero
descritti come entità separate, incapaci di determinare delle relazioni
significative e di dare un senso allo spazi urbano che non sia quello di alienazione
rappresentata dai film moderni.
Il primo
limite si rivela fallimentare la concezione della tabula rasa e della
contrapposizione programmatica tra il nuovo e il preesistente.
Il secondo
limite è il procedere attraverso “problemi isolati”. La città funzionalista
era basata su un’illusione di metodo, cioè come un processo concentrato sulla
rivoluzione dei singoli problemi potesse riuscire alla fine a determinare la
città.
Il terzo
problema risiedeva nella concezione spaziale che è l’esito architettonico
del metodo appena descritto. Lo spazio urbano in questo contesto era concepito
come un vassoio teoricamente illimitato, omogeneo in tutte le dimensioni,
governato dallo standard, hai rapporti tra volumi puri sotto la luce e in fondo
non importante in sé, ma solo come risultante dei volumi che vi poggiamo.
Il quarto
problema è il più profondo e drammatico ed ha a che vedere con l’uso
dell’aggettivo ludico. La città del funzionalismo era concepita per risolvere
primariamente un problema di quantità.
Appunto le analisi e risoluzioni “singole”
dei problemi organizzativi in sequenza come una catena di montaggio.
Gli architetti approfondendo alcuni di questi
quattro punti combattono con mille difficoltà e con mille contraddizioni una
nuova battaglia e fronteggiano una nuova dilaniante crisi.
Le
macrostrutture
Al termine degli anni cinquanta emerge una posizione più forte e
decisa di quella di Town design britannico perché propone un vero e proprio
salto concettuale. La parola chiave è macrostruttura.
Il Piano Obus immaginava per esempio
un’autostrada che aveva ai piani inferiori abitazioni e servizi e si snodava
per chilometri lungo il golfo degli Algeri.
L’architettura diventa città stessa e se
l’architettura era città poteva dettare i rapporti con la natura, con il
paesaggio, con il già costruito.
Piano urbanistico e scelte edilizie
convivevano in un’unica azione di progetto.
Nella seconda parte degli anni cinquanta e
all’inizio degli anni sessanta una serie di architetti d’avanguardia sviluppa
questa importante e critica modalità di costruire le periferie del primo
dopoguerra da una posizione giacobina.
Le nuove strutture si devono porre in
rapporto dialettico con il paesaggio naturale e con i tessuti urbani
preesistenti affermando un’alterità che è formale quanto sostanziale.
La macrostruttura ha caratterizzato una serie
di realizzazioni a partire dalla seconda parte degli anni cinquanta.
In Gran Bretagna nel clima del Brutalismo nasce Hyde Park a
Sheffield, un’architettura di grandi dimensioni centrata su una rivalutazione
dei percorsi in quota dentro gli edifici: il walk street deck.
A Philadelphia Luois Kahn nel 1957 propone per risolvere il tema della città dei
macro-contenitori, una sorta di grandi fucine che condensano parcheggi
commercio e residenza e li mette a corona della città.
Kenzo Tange e i suoi
studenti propongono grandi edifici per le baie di Tokyo e di Boston in cui il
tema della sezione gradinata per caratterizzare l’interno è decisiva.
Ludovico Quaroni disegna nel
1960 un importante progetto di concorso per Mestre, di fonte a Venezia.
A Roma si forma un ampio gruppo di architetti
e urbanisti che propongo “l’asse attrezzato” con lo scopo di decentrare le
attività direzionali dal centro della città.
Molti problemi e molti limiti divengono
evidenti: le macrostrutture invece di risolvere attraverso l’estremizzazione
delle posizioni il tema della città e dello spazio urbano, rendono ancora più
evidenti l’incapacità di un’architettura nata in rapporto all’industria
nell’affrontare situazioni complesse, catotiche, stratificate e in costante
divenire. Bisogna cercare in una direzione completamente diversa e cominciare a
mettere in gioco altri parametri.
Dal Basso. Continuità e tessuti urbani (cap.
18)
La macrostruttura non esaurisce il fronte
della ricerca della città. Altri architetti si pongono questioni che riguardano
concretamente il modo di vivere delle persone, le relazioni tra città nuova e
ambienti preesistenti, l’articolazione degli spazi in una sequenza di soglie di
uso differenti.
La presenza di una dialettica di posizioni è
quella che si attua anche nel Team X,
un’affiliazione di architetti che si formarono nel 1954 per organizzare il
decimo CIAM con un’agenda di lavori in contrasto con l’egemonia dei maestri e
che innestarono il processo che sciolse lo stesso CIAM nel 1959.
Il Team
X ha dei britannici Peter e Alison Smithson che erano le anime
organizzative. Questi provengono dalle esperienze brutaliste del primo
dopoguerra e hanno contribuito con l’idea del walk street deck (la strada in
quota). È centrale nell’atteggiamento degli Smithson
e soprattutto è un rifiuto generazionale e quindi “di metodo”, verso
qualunque sistema dottrinario e ideologico. Amano indagini empiriche, basate
sulla concretezza, sulle ipotesi, sul caso per caso.
La dialettica regola-variazione è una
caratteristica di metodo comune del gruppo Team
X.
In Aldo
van Eyck con una ricerca verso una serie di forme primarie a cui applicare
sviluppi cellulari in progetti che hanno spesso il gioco come orizzonte di
riferimento; in Giancarlo De Carlo con
un’aderenza alla concretezza orografica e storica dei siti; in Coderch in composizioni equilibrate che
si traducono anche nei ritmi modulati delle sue facciate.
Kevin Lynch, un urbanista
americano, si inizia a chiedere se i meccanismi funzionali ereditati dalla
stagione precedente siano validi per creare una riconoscibilità dell’ambiente
urbano. Elabora cinque categorie: percorsi,
margini, quartieri, nodi e riferimenti; questi sono del tutto diversi dal
modo di pensare precedente.
Non esiste solo la contrapposizione
pubblico-privato che sembra essere alla base di alcuni concetti del
funzionalismo, ma una serie molto articolata di “soglie”, di ambiti spaziali,
differenziati gli uni dagli altri.
Nascono nuove parole: tessuto, low rise-high density, pacchetti edilizi, case sovrapposte.
Il tessuto
In Europa e negli Stati Uniti nel corso degli
anni sessanta si va affermando un modo di operare che rappresenta una critica
al modello per case alte isolate e immerse nel verde.
La formula è quella del low rise-hight density che intende limitare densità fondiarie
adeguate alle situazioni urbane con un sistema compatto di edificazione. Il
tema prevalente della progettazione planimetrica diviene quello della
continuità che si concretizza attraverso la definizione di una serie di spazi
che formano strade, piazze, entrate, punti di sosta e valorizzano il contesto
accettandone le regole di formazione.
All’interno di questa nuova impostazione il tessuto diventa la parola chiave.
Il terreno in questo contesto non è più un
vassoio su cui poggiare i volumi, ma una sorta di mappa modulata, un tappeto da
progettare come un insieme in cui interagiscono spazi, strade, edifici, sistemi
verdi e lastricati. I progetti risultano come governati da una griglia.
La griglia si svuota, si apre e si chiude
creando un continuum di relazioni tra i vari ambiti.
Halen
Svizzera Atelier 5
Il
progetto Halen è un intervento innovativo per molti aspetti, sorge fuori
Berna.
E'
un progetto fondato su una base di filari paralleli di case basse che si
innestano a diverse quote nella collina boschiva.
Il
progetto è dotato di servizi collettivi come una piscina, sale comuni, un
ristorante; di case di tre piani strette e lunghe; di una serie di atelier e di
spazi aperti articolati tra loro.
E'
evidente il "ribaltamento in orizzontale" dell'idea di unità
abitativa di Le Corbusier.
Al
posto del verde connettivo si utilizza la vegetazione per creare delle zone di
privacy, in questo modo nascono i patii interni, le terrazze aggettanti e i
tetti con erba. Invece lo spazio collettivo ritorna a essere prevalentemente
lastricato richiamando atmosfere delle città medioevali.
I
blocchi del complesso sono disposti a tessuto determinando una piazza centrale
e un sistema di strade che si connettono al corso principale.
Effettivamente questo gruppo si allaccia ad
un'operatività di squadra, ad uno studio oggettivo ed analitico del
progetto.
Quando il progetto di Halen viene proposto trova una
conferma nell'opera di Louis Sauer che nel corso degli anni sessanta fa
un'operazione di recupero urbano nel quartiere più antico di Philadelphia:
Society Hill.
Queste sono operazioni contro corrente con
l'impostazione della città macchina che comincia ad essere sostituita con
progetti dentro la città già costruita. I tipi edilizi devono rinnovarsi
completamente e nascono nuovi sistemi e nuove scoperte.
Society
Hill. Case basse nella città costruita
Il recupero del quartiere di Socity Hill è
inserito nel 1957 nei progetti ufficiali dell’amministrazione, qui prevale la
tesi di Edmund Bacon direttore della
Planning Commission. Lui propone il coinvolgimento attivo del quartiere nella
vita della città attraverso il recupero finalizzato di alcuni manufatti storici
e la contemporanea edificazione di strutture nuove.
La strategia del low rise-high density diventa fondamentale in questo contesto
perché da un lato mantiene la struttura urbana preesistente, dall’altro
incrementa la densità fondiaria.
L’architetto Louis Sauer
inizia come street architect incaricato di intervistare porta a porta. Poi
progetta per Society Hill quattordici interventi e ne realizza dieci, di cui il
più significativo occupa un intero isolato: Penn’s Landing Square. Su un’area
di 9.300 mq si insediano più di 450 abitanti con una densità superiore ai 460
abitanti per ettaro, particolarmente alta trattandosi di abitazioni con circa
35 mq di superficie utile abitabile.
Il progetto si fonda sulla continuità del
perimetro esterno a difesa della variazione spaziale degli spazi interni
pedonali e collettivi, sull’inserimento dei parcheggi sotterranei nella parte
più bassa dell’isolato.
Ogni pacchetto contiene più alloggi aggregati
verticalmente e orizzontalmente e incorpora al suo interno le scale di accesso
autonome.
L’organizzazione a “L” guida sia le
combinazioni planimetriche sia l’organizzazione in sezione. Sauer compie il miracolo di conservare molti dei caratteri dei
suburbia inserendo il suo pacchetto nei contesti densi della città storica nata
dal disegno di William Penn.
Sono
le aggregazioni e combinazioni diverse del pacchetto abitativo che permettono
di organizzare il complesso secondo le esigenze e le caratteristiche degli
spazi.
Se Atelier 5 guarda Le Corbusier ribaltandone gli assunti, e Sauer sembra guardare implicitamente Wright portando all’interno della città qualità di vivibilità tutte
americane, l’esperienza di Ralph Erskine
fa sua la tradizione aperta, flessibile e informale dell’empirismo scandinavo.
Il
suo intervento chiave si chiama Clare Hall e sorge in un contesto
particolarmente stimolante, quello della città-campus.
Clare Hall
Cambridge
Le cittadine universitarie inglesi e
statunitensi sono un banco di prova nel corso di questi anni sessanta di nuove
ipotesi di architettura e di disegno urbano.
Cambridge in Gran Bretagna presenta progetti
che vanno dall’aggregazione a sezione gradonata di Denis Lasdun all’adozione di una tipologia consolidata a corte di Leslie Martin.
Proprio a Cambridge si costruisce nel 1966 il
terzo esempio prototipico di un progetto organizzato sul principio del tessuto.
Costruito tra il 1966 e il 1969 Clare Hall è
un college “post graduate” e comprende numerosi servizi collettivi e 20 alloggi
di vario tipo.
Eskine si adegua alla maglia viaria esistente e colloca ortogonalmente
alla griglia stradale le tre parti che costituiscono il college. La regolarità
della griglia e il rispetto degli allineamenti esterni afferma il ruolo del
complesso nel contesto esistente.
L’idea guida del progetto è creare una
graduale continuità degli spazi. Di nuovo questa continuità determina un
“tessuto” che si richiama alle organizzazioni urbane di origine medievale dei
piccoli borghi o villaggi.
Erskine sviluppa in questo progetto una
sensibilità particolare verso alcune decisioni che mettono in relazione i
principi strutturanti non solo di un approccio per tessuto, ma anche di un
approccio morfologico.
Il fronte della forma (cap. 19)
La scena urbana
I volumi puri sotto la luce e la logica addizionale e sommatoria
del funzionalismo avevano completamente rimosso dall’esperienza degli
architetti la tradizione di costruzione della città che aveva origine nella
Roma tardo-rinascimentale e barocca e nel disegno organico e sinuoso degli
spazi pubblici.
Non lontana dal pensiero kahniano nasce alla
metà degli anni sessanta la posizione di Charles
Moore che comincia ad indagare la conformazione dello spazio “negativo”. Il
ribaltamento è significativo perché in quest’altra concezione volumi e spazio
vuoto sono concentrati in una logica di insieme.
Esso comincia a studiare in questa luce i
complessi vernacolari e spontanei dell’edilizia minore americana ed europea e
ad applicare le sue scoperte in un riuscito complesso nella costa californiana.
Si tratta del complesso Sea Ranch che vede il disegno di insieme
realizzato dall’architetto del paesaggio Lawrence
Halprin. In questo caso entrano in gioco tutta una serie di categorie
completamente estranee alla tradizione funzioanlista.
Moore con Esherick, Lyndon, Whitaker, Turnbull (MLTW) realizza architetture che si inseriscono mirabilmente nel
piano di insieme e adotta la frammentarietà e l’informalità che desume
dall’edilizia vernacolare.
Moore comincia a realizzare nella
seconda parte degli anni sessanta un altro complesso importante, si tratta del
Kresge College a Santa Cruz che diventa uno dei primi esempi complessivi di
conformazione dello spazio in chiara alternativa alle regole funzionalistiche.
L’idea-guida è la creazione di una “scena urbana”; l’attenzione si concentra
sul disegno di una serie di situazioni planimetriche e volumetriche che mettono
in relazione la forma dello spazio aperto alla disposizione dei volumi.
Non solo l’idea del vassoio è superata, ma la
stessa idea di sezione basta sull’indipendenza di ciascun elemento della
macchina urbana è superata.
Anche a una vista superficiale l’intervento
richiama non solo la frammentarietà dei complessi dell’edilizia vernacolare ma
soprattutto l’influenza dell’architettura tardo-romana e di Villa Adriana.
Ormai gli esempi del passato dell’architettura sono tornati a essere
indispensabili elementi di raffronto e di ispirazione.
Rossi e i
tipi con forma
Le macrostrutture, il tessuto e la scena urbana sono tre approcci che emergono per rispondere all’ormai
generalizzata consapevolezza delle difficoltà di creare un vitale ambiente
urbano sulla base dei principi del funzionalismo.
Aldo Rossi nel 1966 scrive un libro da titolo “L’architettura della città”.
Sin dal titolo pone con chiarezza il problema. La crisi di fronte agli
architetti della sua generazione è quella della città che il funzionalismo non
è stato in grado di affrontare. Lui sviluppa la propria costruzione teorica in
una serie di argomentazioni chiave.
La prima è la nuova centralità e la forza
autonoma che attribuisce alla forma architettonica. La città non è quindi tema
da affrontare con logiche economiche né con ragionamenti meccanici.
Riacquisita centralità alla forma e alla
memoria storica, il secondo punto è a proposizione di due coppie di termini.
Sono la dualità monumento-tessuto e soprattutto quella morfologia-tipologia.
Le costruzioni di Rossi in questi anni sessanta sono poche. Per lui ogni architettura
è forma, parla di città e lo fa sempre con chiare morfologie e secchi e
ripetuti tipi edilizi.
Insomma se è vero che lui ha avuto la
lucidità di affrontare il problema e i limiti della città funzionalista, e se è
vero che il successo del suo lavoro è anche dovuto all’indubbia
consequenzialità della sua logica è anche vero che questo mondo e questa
costruzione rappresenta senz’altro un ritorno all’antico.
Rossi apre così la strada a un
ventennio di ripensamenti e di arretramenti contraddittoriamente gravitanti sul
ruolo della memoria del passato.
Il parricidio kahniano
La ricerca di Luois Kahn è così estremamente funzionale, così disperatamente
funzionale da cercare quelle forme assolute e permanenti che rispecchiano nell’intimo
le ragioni della funzione e degli uomini di stare insieme.
Anche se Robert
Venturi è spesso descritto come un seguace kahniano nei fatti la
costruzione venturiana è l’esatto opposto di quella kahniana. In realtà tutta
la sua opera è un pervicace necessario parricidio intellettuale.
Se Kahn
rivendica l’assoluta corrispondenza tra forma e funzione, Venturi ne dichiara apertamente l’indipendenza, se Kahn vuole che gli elementi costruttivi
strutturino lo spazio, Venturi
programmaticamente tralascia la costruzione come fatto dell’ingegneria.
Per Kahn
la ricerca di significato profondo, ancestrale, radicato nello spessore sociale
dello stare, è la vera ricerca dell’order
dell’architettura.
Per Venturi
una macedonia ammiccante di gusti colti e popolari, opera un ribaltamento
completo di valori ma anche di metodo.
L’architettura del modernismo era nata con
un’implicita vocazione dottrinaria e didattica.
La chiave di questo processo era la selezione
estremamente attenta di una serie di materiali e di modalità operative.
Non è un caso che Venturi
usi invece sin nel titolo del suo libro la parola complessità. Per lui i valori, i significati, i materiali devono
essere presi invece con assoluta libertà operando a tutto campo in maniera inclusiva.
La ricetta venturiana per fare architettura è
diretta. Bisogna creare scatole il più possibili semplici e concentrarsi sul
disegno della decorated shed (pelle
esterna).
In questo contesto emerge il senso della seconda
parola chiave di Venturi: contraddizione.
Le sue architetture vogliono ritrovare il
valore iconico di un’immagine nota, fatta di elementi familiari.
L’architettura è fatta per essere fotografata
in una posizione chiave, quella della facciata principale. Basta girare
l’angolo per vedere la disarmante pochezza dell’insieme.
Venturi attraverso questo libro diventa così
un doppio campione: da una parte della sepoltura dei padri del movimento
moderno e dell’esperienza nata negli anni venti, dall’altra di un’interpretazione
che vede l’architettura in una ricerca formale e in una nuova libertà
inclusivita di azione.
Sono parole che nel 1966 non erano ancora
completamente emerse, ma che diventano la chiave per capire come si evolvono
alcuni filoni della ricerca successiva.
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