giovedì 11 aprile 2019

La scacchiera


La scelta dell'opera è Halen del gruppo Atelier 5. 



Il Bang è VOLUMI.
Infatti componendo e scomponendo varie volte questi parallelepipedi si è cercata di creare una forma che in orizzontale o in verticale fosse composta da vari volumi accentuando la sua variazione nella forma e nello spazio.

Le varie composizioni






Studiare l'opera



Halen, Svizzera, Atelier 5
Bang: VOLUMI




Il progetto Halen è un intervento innovativo per molti aspetti, sorge fuori Berna. 
E' un progetto fondato su una base di filari paralleli di case basse che si innestano a diverse quote nella collina boschiva. 
Il progetto è dotato di servizi collettivi come una piscina, sale comuni, un ristorante; di case di tre piani strette e lunghe; di una serie di atelier e di spazi aperti articolati tra loro. 
E' evidente il "ribaltamento in orizzontale" dell'idea di unità abitativa di Le Corbusier. 










Al posto del verde connettivo si utilizza la vegetazione per creare delle zone di privacy, in questo modo nascono i patii interni, le terrazze aggettanti e i tetti con erba. Invece lo spazio collettivo ritorna a essere prevalentemente lastricato richiamando atmosfere delle città medioevali.
I blocchi del complesso sono disposti a tessuto determinando una piazza centrale e un sistema di strade che si connettono al corso principale. 




Halen è soprattutto un laboratorio di studio sull'alloggio, infatti si rivolge una nuova attenzione all'acustica, alla luce zenitale e ad altri aspetti particolarmente delicati che possono essere affrontati solo e unicamente da un team affiatato e motivato come l'Atelier 5. 



Effettivamente questo gruppo si allaccia ad un'operatività di squadra, ad uno studio oggettivo ed analitico del progetto. 
Quando il progetto di Halen viene proposto trova una conferma nell'opera di Louis Sauer che nel corso degli anni sessanta fa un'operazione di recupero urbano nel quartiere più antico di Philadelphia: Society Hill. 
Queste sono operazioni contro corrente con l'impostazione della città macchina che comincia ad essere sostituita con progetti dentro la città già costruita. I tipi edilizi devono rinnovarsi completamente e nascono nuovi sistemi e nuove scoperte. 




La mia scelta è ricaduta sul complesso Halen perchè penso sia molto importante il rapporto che gli edifici abbiano con la natura circostante ed anche il fatto che l'intervento non abbia "aggredito" il terreno collinare esistente. Inoltre reputo molto interessante anche lo sviluppo modulare e orizzontale degli alloggi che anche essendo allineati creano una sorta di movimento visivo con i chiaro-scuri. 
E' un'opera che conoscevo, ma riguardandola ho colto alcuni suoi vari aspetti che inizialmente non mi sembravano molto evidenti. Pur sembrando identica architettonicamente in realtà a contatto con la natura cambia completamente forma! Infatti ogni alloggi è dotato o meno di piante arrampicanti o comunque di verde che si distingue l'uno dall'altro, dando vita a moduli apparentemente uguali ma diversi tra loro. 
Un'altra cosa che mi ha colpita è stata la fusione delle varie azioni che si possono svolgere all'interno di questo complesso, penso che si possa definire come un vero e proprio cardine della MIXITE'.


 


Dal libro Architettura e Modernità


Parte quarta
“Gli anni del Big Bang: 1957-1966”
Dalla Università di Leicester a Clare Hall

Lo sguardo eccentrico (cap. 16)


Popolare
Lo scenario alla metà degli anni cinquanta è diverso dalla necessità di rifondazione che si ha dopo la Seconda guerra mondiale.
Nel 1956 gli addetti al settore terziario superano per la prima volta negli Stati Uniti i lavoratori dell’industria e dell’agricoltura. È l’inizio di una modifica dell’intera società di cui si coglierà l’importanza solo alcuni decenni dopo. Il futuro è arrivato.
Il duro Espressionismo astratto degli anni immediatamente successivi alla guerra (neorealista) è sostituito nella seconda parte degli anni cinquanta con ricerche che si denominano “POP”, popolari. Lo sguardo dell’arte si volge verso gli oggetti della vita quotidiana. Il fumetto, la pubblicità, il culto delle star del cinema e la musica dei giovani entrano entrano nell’immaginario contemporaneo.
Inizia nel Nord America James Johns che volge uno sguardo perplesso ad alcuni oggetti simbolo della società americana, seguono Andy Warhol, che dalla pubblicità approda all’arte, e Roy Linchtenstein, o Claes Oldenburg che assembla hamburger realizzati in ceramica.
In Italia Burri che cuciva sacchi abbandonati, a cui segue Mimmo Rotella che scorticava i manifesti dei film.
Questo nuovo mondo si è trasformato in soggetto. La famosa lattina con l’etichetta “Merda di Artista” del 1961 e la firma di Piero Manzoni ne è la prova estrema.
Yves Klein muore nel 1962 dopo aver lasciato un’icona per gli anni a venire: “il salto”, fa parte di una serie di opere chiamate “blu” a cui Domenico Modugno si ispira alla famosa canzone Nel blu dipinto di blu, mentre Klein si ispira a sua volta alla canzone Volare.
La tecnologia diffonde e moltiplica l’arte inventando nuove forme d’esteticità diffusa.
In Francia nel 1957 si fondo l’Internazionale situazionista e l’architetto israeliano Yona Friedman con Eckhard Schulze-Fielitz, Georges Emmerich, Jerzy Soltan, fonda il Group d’Etude d’Architecture Mobile cominciando ad elaborare disegni e progetti basati appunto sulla trasportabilità delle strutture in un’impostazione dichiaratamente anti CIAM.
In Gran Bretagna i processi di riscoperta “popolare” nel mondo si travasano nel campo dell’architettura quando un gruppo di giovani pubblica nel 1961 la rivista “Archigram” che ibrida i generi. Le proposte dei sei architetti (Warren Chalk, Peter Cook, Dennis Crompton, David Greene, Ron Herron, Michael Webb) consistono in una serie di idee nuove presentate con una tecnica che è il simbolo della nuova e poliedrica società contemporanea: il collage. Moduli abitativi che si attaccano a grandi strutture.
Esplorare nuovi temi, assemblare pratiche eterogenee, ibridare i confini disciplinari, rivela l’ottimismo fiducioso delle possibilità che offre il nuovo mondo.
Il collage è tecnica che si travasa anche  nel concetto di architettura.
I professori degli Archigram James Gowan e James Stirling creano nell’Università di Leicester un’opera che assembla con brutale audacia il patrimonio degli architetti della generazione precedente: torre a sbalzo e superficie ipostola alle Officine del gas e alle disconnessioni costruttiviste.
Anche in Giappone si forma un gruppo che opera con uno spirito simile agli Archigram, con il nome di Metabolisti che indica la volontà di concentrarsi sulle tematiche di costante mutazione nella metropoli con un accento biologico.
In Austria e poi in Italia il Futurismo viene riproposto all’attenzione.
Torna di grande popolarità Richard Buckminster Fuller che sino agli anni trenta aveva continuato a proporre realizzazioni completamente industrializzate. La sua famosa cupola geodetica si presta a creare grandi ambienti ad atmosfera controllata, ma anche micro-abitazioni da far approdare nei contesti più diversi. La piccola casa-capsula come un UFO edilizio si confronta con la grande distesa luccicante di un’infinita città regione. Le cupole geodetiche possono anche ospitare grandi spazi espositivi.


Il Big Bang
Negli anni sessanta c’è la nascita di un atteggiamento “esclusivista”, l’architettura è disciplina polisemica.
L’architettura affermatasi negli anni venti aveva cambiato completamente i contenuti delle tre tradizionali aree, questo processo verso l’intima coerenza del progetto aveva trovato il suo apice nell’opera di Louis Kahn.
Il movimento che si attua nell’architettura degli anni sessanta è in direzione opposta: è un movimento nei fatti antikahniano che da un’attrazione verso la “sintesi”. È il Big Bang dell’architettura.
Questo atteggiamento esclusivista non si applica però solo all’esalazione tecnologico-costruttiva.
Per Christopher Alexander è il frutto di un albero di requisiti di ordine plastico, è l’esplicitazione di tutti gli attributi funzionali e la parallela esclusione degli altri.
L’architettura tende non solo a trasformarsi nei risultati rispetto a quella degli anni precedenti, ma soprattutto si allontana dal suo tradizionale statuto per essere attratta in un caso dalle scienze esatte.
La cultura architettonica tende ora a valorizzare le singolarità. Si tende a costruire valore, non più sulla centralità, ma sull’eccentricità, non più sulla ragionevolezza, ma sull’esclusività.
Lo studioso britannico Colin Rowe diventa il campione di una lettura formalistica che taglia i ponti con la complessità di relazioni sociali, costruttive e storiche dell’architettura per centrare l’attenzione esclusivamente sui fenomeni sintattici.
Su un fronte tematicamente diverso operano gli scritti di Reyner Banham e di Leonardo Benevolo.


La storia pop
Come è noto la storia dell’arte o dell’architettura non faceva parte delle materie di insegnamento del Bauhaus ed era tenuta all’esterno dalla corrente principale del funzionalismo.
L’Italia è il paese in cui si afferma un approccio diverso, si fa strada nel secondo dopoguerra un’dea moderna dell’uso della storia innestata dalle lezioni del filosofo Benedetto Croce.
Da una parte vi è il fronte degli storici di professione, seguaci della tradizione di Gustavo Giovannoni che continuano a creare edifici che propongono partiti. Accanto a questa posizione vi è quella di architetti che guardano non solo alle articolazioni plastiche e agli stili antichi, ma anche a una sorta di storia antropologica dei modi di abitare.
Saverio Muratori è il capostipite di questa impostazione e formerà una piccola, ma forte scuola di pensiero. Attorno alla rinnovata “Casabella” diretta da Ernesto Nathan Rogers si opera una particolare ibridazione.
Ignazio Gardella tealizza una casa concepita alle zattere di Venezia o gli splendidi volumi puri delle sue case Bossalino ad Alessandria. Franco Albini crea nel 1956 un Grande magazzino in ossatura metallica a Roma a ridosso delle mura aureliane, ricco di tessiture quasi barocche; Rogers e il suo studio BBPR crea nella Torre Velasca a Milano nel 1958 un ibrido interessante e inquietante tra un grattacielo e una torre medioevale che solleva aspre critiche internazionali.
Nel campo delle sistemazioni museali gli architetti italiani fanno scuola. Creano spazi dinamici nelle vecchie sale intervenendo con nuovi squarci e strutture, incastrano gli oggetti antichi in vere e proprie rappresentazioni con strutture ora metalliche ora di vetro che fanno attori vivi della scena. I BBPR operano anche nel restauro del Castello sforzesco a Milano.
Il grande propugnatore di questo utilizzo moderno della storia è Bruno Zevi.
In una prima fase dimostra con il suo libro “Saper vedere l’architettura” che è possibile rileggere le grandi opere dell’architettura del passato utilizzando una sensibilità contemporanea attenta alle concezioni spaziali che le sottendono, successivamente scrivendo “Storia dell’architettura moderna” che ricostruisce una complessità di fermenti, motivi e personalità. Sul finire degli anni cinquanta e nei primi anni sessanta la posizione di Zevi si radicalizza.
Esso demolisce il tipo del tempio greco e la conseguente mitizzazione neoclassica per rivendicare l’eccezione e la trasgressione dell’Eretteo di Filocle ad Atene. Del mondo romano esalta lo spazio interno della Minerva Medica e il Continuum della Villa Adriana. Ama l’edilizia minore e il Gotico di Arnolfo di Cambio e il suo palazzo Vecchio a Firenze.


Isole e penisole
In Arizona opera, a partire dalla seconda metà degli anni cinquanta, l’italiano Paolo Soleri.  Dopo essere stato aiutante di Wright nel primo dopoguerra nel 1954 torna in Arizona e si dedica a realizzare un’architettura che è la raffigurazione del proprio pensiero complessivo: è un mondo contro lo spreco della fantasia, contro la follia della città diffusa e dell’automobile, contro l’opulenza capitalistica, contro le lobby professionali e politiche.
La chiave della sua ricerca sta nell’equilibrio tra l’artefatto umano e le forze della natura, costruisce le sue architetture come fa con le proprie terrecotte.
Ma anche altri architetti danno vita a un proprio mondo espressivo.
Sempre in America opera Bruce Goff che estremizza l’approccio sperimentale di ogni progetto una soluzione. Lui cerca di volta in volta un assemblaggio ludico di componenti e spazi in cui creatività si somma a creatività.
L’architetto Herb Greene si forma con Goff e lavora spesso con artisti: crea con la propria casa un canto di informalità libera, incarnando in profondità le aspirazioni più profonde della cultura del Sud.
In Finlandia opera Reima Pietila che comincia nel 1961 la realizzazione della Casa dello studente Dipoli a Otaniemi. Affonda in una ricerca viscerale e in un’espressività tardo-romana.
In Italia opera con un’inesausta passione per il particolare vibrato all’infinito e con una sensibilità formidabile per lo spazio.
In questi stessi anni il toscano Giovanni Michelucci continua un personale percorso verso la combinazione nell’architettura di un paesaggio antropizzato e simbolico a un tempo che porta avanti in alcune pregevoli realizzazioni come la Casa sulla autostrada del 1964. Allievo e suo amico, Leonardo Ricci crea veramente due isole di civiltà architettonica e umana: il villaggio che costruisce alle porte di Firenze.
In Israele operano Alfred Neuman e Zvi Hecker in una ricerca accanita verso organizzazioni cellulari che hanno nell’habitat realizzato dal giovane architetto Moshe Safdie all’Expo di Montreal del 1967.
La figura di Adriano Olivetti promuove a Ivrea un’area di sperimentazione illuminata che investe i temi dell’urbanistica.
Un’altra isola è quella del pittore olandese Constant Nieuwenhuys, che si affianca in alcune fasi ad altri artisti chiamati “situazionisti”. A partire dal 1959 si concentra sulla creazione e progettazione di uno spazio urbano che chiama “New Babylon” e pone al centro una condizione nomade ed errante dell’abitare.





La crisi della città (cap. 17)


Critiche in movimento
La nuova città sarebbe popolata da grandi edifici multipiano formati da cellule identiche l’una all’altra, da strade carrabili larghe ma anonime, da aree di terreno degradate.
Le case, le strade, gli spazi sarebbero descritti come entità separate, incapaci di determinare delle relazioni significative e di dare un senso allo spazi urbano che non sia quello di alienazione rappresentata dai film moderni.
Il primo limite si rivela fallimentare la concezione della tabula rasa e della contrapposizione programmatica tra il nuovo e il preesistente.
Il secondo limite è il procedere attraverso “problemi isolati”. La città funzionalista era basata su un’illusione di metodo, cioè come un processo concentrato sulla rivoluzione dei singoli problemi potesse riuscire alla fine a determinare la città.
Il terzo problema risiedeva nella concezione spaziale che è l’esito architettonico del metodo appena descritto. Lo spazio urbano in questo contesto era concepito come un vassoio teoricamente illimitato, omogeneo in tutte le dimensioni, governato dallo standard, hai rapporti tra volumi puri sotto la luce e in fondo non importante in sé, ma solo come risultante dei volumi che vi poggiamo.
Il quarto problema è il più profondo e drammatico ed ha a che vedere con l’uso dell’aggettivo ludico. La città del funzionalismo era concepita per risolvere primariamente un problema di quantità.
Appunto le analisi e risoluzioni “singole” dei problemi organizzativi in sequenza come una catena di montaggio.
Gli architetti approfondendo alcuni di questi quattro punti combattono con mille difficoltà e con mille contraddizioni una nuova battaglia e fronteggiano una nuova dilaniante crisi.


Le macrostrutture
Al termine degli anni cinquanta emerge una posizione più forte e decisa di quella di Town design britannico perché propone un vero e proprio salto concettuale. La parola chiave è macrostruttura.
Il Piano Obus immaginava per esempio un’autostrada che aveva ai piani inferiori abitazioni e servizi e si snodava per chilometri lungo il golfo degli Algeri.
L’architettura diventa città stessa e se l’architettura era città poteva dettare i rapporti con la natura, con il paesaggio, con il già costruito.
Piano urbanistico e scelte edilizie convivevano in un’unica azione di progetto.
Nella seconda parte degli anni cinquanta e all’inizio degli anni sessanta una serie di architetti d’avanguardia sviluppa questa importante e critica modalità di costruire le periferie del primo dopoguerra da una posizione giacobina.
Le nuove strutture si devono porre in rapporto dialettico con il paesaggio naturale e con i tessuti urbani preesistenti affermando un’alterità che è formale quanto sostanziale.
La macrostruttura ha caratterizzato una serie di realizzazioni a partire dalla seconda parte degli anni cinquanta.
In Gran Bretagna nel clima del Brutalismo nasce Hyde Park a Sheffield, un’architettura di grandi dimensioni centrata su una rivalutazione dei percorsi in quota dentro gli edifici: il walk street deck.
A Philadelphia Luois Kahn nel 1957 propone per risolvere il tema della città dei macro-contenitori, una sorta di grandi fucine che condensano parcheggi commercio e residenza e li mette a corona della città.
Kenzo Tange e i suoi studenti propongono grandi edifici per le baie di Tokyo e di Boston in cui il tema della sezione gradinata per caratterizzare l’interno è decisiva.
Ludovico Quaroni disegna nel 1960 un importante progetto di concorso per Mestre, di fonte a Venezia.
A Roma si forma un ampio gruppo di architetti e urbanisti che propongo “l’asse attrezzato” con lo scopo di decentrare le attività direzionali dal centro della città.
Molti problemi e molti limiti divengono evidenti: le macrostrutture invece di risolvere attraverso l’estremizzazione delle posizioni il tema della città e dello spazio urbano, rendono ancora più evidenti l’incapacità di un’architettura nata in rapporto all’industria nell’affrontare situazioni complesse, catotiche, stratificate e in costante divenire. Bisogna cercare in una direzione completamente diversa e cominciare a mettere in gioco altri parametri.



Dal Basso. Continuità e tessuti urbani (cap. 18)

La macrostruttura non esaurisce il fronte della ricerca della città. Altri architetti si pongono questioni che riguardano concretamente il modo di vivere delle persone, le relazioni tra città nuova e ambienti preesistenti, l’articolazione degli spazi in una sequenza di soglie di uso differenti.
La presenza di una dialettica di posizioni è quella che si attua anche nel Team X, un’affiliazione di architetti che si formarono nel 1954 per organizzare il decimo CIAM con un’agenda di lavori in contrasto con l’egemonia dei maestri e che innestarono il processo che sciolse lo stesso CIAM nel 1959.
Il Team X ha dei britannici Peter e Alison Smithson che erano le anime organizzative. Questi provengono dalle esperienze brutaliste del primo dopoguerra e hanno contribuito con l’idea del walk street deck (la strada in quota). È centrale nell’atteggiamento degli Smithson e soprattutto è un rifiuto generazionale e quindi “di metodo”, verso qualunque sistema dottrinario e ideologico. Amano indagini empiriche, basate sulla concretezza, sulle ipotesi, sul caso per caso.
La dialettica regola-variazione è una caratteristica di metodo comune del gruppo Team X.
In Aldo van Eyck con una ricerca verso una serie di forme primarie a cui applicare sviluppi cellulari in progetti che hanno spesso il gioco come orizzonte di riferimento; in Giancarlo De Carlo con un’aderenza alla concretezza orografica e storica dei siti; in Coderch in composizioni equilibrate che si traducono anche nei ritmi modulati delle sue facciate.
Kevin Lynch, un urbanista americano, si inizia a chiedere se i meccanismi funzionali ereditati dalla stagione precedente siano validi per creare una riconoscibilità dell’ambiente urbano. Elabora cinque categorie: percorsi, margini, quartieri, nodi e riferimenti; questi sono del tutto diversi dal modo di pensare precedente.
Non esiste solo la contrapposizione pubblico-privato che sembra essere alla base di alcuni concetti del funzionalismo, ma una serie molto articolata di “soglie”, di ambiti spaziali, differenziati gli uni dagli altri.
Nascono nuove parole: tessuto, low rise-high density, pacchetti edilizi, case sovrapposte.


Il tessuto
In Europa e negli Stati Uniti nel corso degli anni sessanta si va affermando un modo di operare che rappresenta una critica al modello per case alte isolate e immerse nel verde.
La formula è quella del low rise-hight density che intende limitare densità fondiarie adeguate alle situazioni urbane con un sistema compatto di edificazione. Il tema prevalente della progettazione planimetrica diviene quello della continuità che si concretizza attraverso la definizione di una serie di spazi che formano strade, piazze, entrate, punti di sosta e valorizzano il contesto accettandone le regole di formazione.
All’interno di questa nuova impostazione il tessuto diventa la parola chiave.
Il terreno in questo contesto non è più un vassoio su cui poggiare i volumi, ma una sorta di mappa modulata, un tappeto da progettare come un insieme in cui interagiscono spazi, strade, edifici, sistemi verdi e lastricati. I progetti risultano come governati da una griglia.
La griglia si svuota, si apre e si chiude creando un continuum di relazioni tra i vari ambiti.


Halen Svizzera Atelier 5
Il progetto Halen è un intervento innovativo per molti aspetti, sorge fuori Berna. 
E' un progetto fondato su una base di filari paralleli di case basse che si innestano a diverse quote nella collina boschiva. 
Il progetto è dotato di servizi collettivi come una piscina, sale comuni, un ristorante; di case di tre piani strette e lunghe; di una serie di atelier e di spazi aperti articolati tra loro. 
E' evidente il "ribaltamento in orizzontale" dell'idea di unità abitativa di Le Corbusier. 



Al posto del verde connettivo si utilizza la vegetazione per creare delle zone di privacy, in questo modo nascono i patii interni, le terrazze aggettanti e i tetti con erba. Invece lo spazio collettivo ritorna a essere prevalentemente lastricato richiamando atmosfere delle città medioevali.
I blocchi del complesso sono disposti a tessuto determinando una piazza centrale e un sistema di strade che si connettono al corso principale. 
Effettivamente questo gruppo si allaccia ad un'operatività di squadra, ad uno studio oggettivo ed analitico del progetto. 
Quando il progetto di Halen viene proposto trova una conferma nell'opera di Louis Sauer che nel corso degli anni sessanta fa un'operazione di recupero urbano nel quartiere più antico di Philadelphia: Society Hill. 
Queste sono operazioni contro corrente con l'impostazione della città macchina che comincia ad essere sostituita con progetti dentro la città già costruita. I tipi edilizi devono rinnovarsi completamente e nascono nuovi sistemi e nuove scoperte. 


Society Hill. Case basse nella città costruita
Il recupero del quartiere di Socity Hill è inserito nel 1957 nei progetti ufficiali dell’amministrazione, qui prevale la tesi di Edmund Bacon direttore della Planning Commission. Lui propone il coinvolgimento attivo del quartiere nella vita della città attraverso il recupero finalizzato di alcuni manufatti storici e la contemporanea edificazione di strutture nuove.
La strategia del low rise-high density diventa fondamentale in questo contesto perché da un lato mantiene la struttura urbana preesistente, dall’altro incrementa la densità fondiaria.
L’architetto Louis Sauer inizia come street architect incaricato di intervistare porta a porta. Poi progetta per Society Hill quattordici interventi e ne realizza dieci, di cui il più significativo occupa un intero isolato: Penn’s Landing Square. Su un’area di 9.300 mq si insediano più di 450 abitanti con una densità superiore ai 460 abitanti per ettaro, particolarmente alta trattandosi di abitazioni con circa 35 mq di superficie utile abitabile.
Il progetto si fonda sulla continuità del perimetro esterno a difesa della variazione spaziale degli spazi interni pedonali e collettivi, sull’inserimento dei parcheggi sotterranei nella parte più bassa dell’isolato.
Ogni pacchetto contiene più alloggi aggregati verticalmente e orizzontalmente e incorpora al suo interno le scale di accesso autonome.
L’organizzazione a “L” guida sia le combinazioni planimetriche sia l’organizzazione in sezione. Sauer compie il miracolo  di conservare molti dei caratteri dei suburbia inserendo il suo pacchetto nei contesti densi della città storica nata dal disegno di William Penn.
Sono le aggregazioni e combinazioni diverse del pacchetto abitativo che permettono di organizzare il complesso secondo le esigenze e le caratteristiche degli spazi.
Se Atelier 5 guarda Le Corbusier ribaltandone gli assunti, e Sauer sembra guardare implicitamente Wright portando all’interno della città qualità di vivibilità tutte americane, l’esperienza di Ralph Erskine fa sua la tradizione aperta, flessibile e informale dell’empirismo scandinavo.
Il suo intervento chiave si chiama Clare Hall e sorge in un contesto particolarmente stimolante, quello della città-campus.


Clare Hall Cambridge
Le cittadine universitarie inglesi e statunitensi sono un banco di prova nel corso di questi anni sessanta di nuove ipotesi di architettura e di disegno urbano.
Cambridge in Gran Bretagna presenta progetti che vanno dall’aggregazione a sezione gradonata di Denis Lasdun all’adozione di una tipologia consolidata a corte di Leslie Martin.
Proprio a Cambridge si costruisce nel 1966 il terzo esempio prototipico di un progetto organizzato sul principio del tessuto.
Costruito tra il 1966 e il 1969 Clare Hall è un college “post graduate” e comprende numerosi servizi collettivi e 20 alloggi di vario tipo.
Eskine si adegua alla maglia viaria esistente e colloca ortogonalmente alla griglia stradale le tre parti che costituiscono il college. La regolarità della griglia e il rispetto degli allineamenti esterni afferma il ruolo del complesso nel contesto esistente.
L’idea guida del progetto è creare una graduale continuità degli spazi. Di nuovo questa continuità determina un “tessuto” che si richiama alle organizzazioni urbane di origine medievale dei piccoli borghi o villaggi.
Erskine sviluppa in questo progetto una sensibilità particolare verso alcune decisioni che mettono in relazione i principi strutturanti non solo di un approccio per tessuto, ma anche di un approccio morfologico.



Il fronte della forma (cap. 19)


La scena urbana
I volumi puri sotto la luce e la logica addizionale e sommatoria del funzionalismo avevano completamente rimosso dall’esperienza degli architetti la tradizione di costruzione della città che aveva origine nella Roma tardo-rinascimentale e barocca e nel disegno organico e sinuoso degli spazi pubblici.
Non lontana dal pensiero kahniano nasce alla metà degli anni sessanta la posizione di Charles Moore che comincia ad indagare la conformazione dello spazio “negativo”. Il ribaltamento è significativo perché in quest’altra concezione volumi e spazio vuoto sono concentrati in una logica di insieme.
Esso comincia a studiare in questa luce i complessi vernacolari e spontanei dell’edilizia minore americana ed europea e ad applicare le sue scoperte in un riuscito complesso nella costa californiana.
Si tratta del complesso Sea Ranch che vede il disegno di insieme realizzato dall’architetto del paesaggio Lawrence Halprin. In questo caso entrano in gioco tutta una serie di categorie completamente estranee alla tradizione funzioanlista.
Moore con Esherick, Lyndon, Whitaker, Turnbull (MLTW) realizza architetture che si inseriscono mirabilmente nel piano di insieme e adotta la frammentarietà e l’informalità che desume dall’edilizia vernacolare.
Moore comincia a realizzare nella seconda parte degli anni sessanta un altro complesso importante, si tratta del Kresge College a Santa Cruz che diventa uno dei primi esempi complessivi di conformazione dello spazio in chiara alternativa alle regole funzionalistiche. L’idea-guida è la creazione di una “scena urbana”; l’attenzione si concentra sul disegno di una serie di situazioni planimetriche e volumetriche che mettono in relazione la forma dello spazio aperto alla disposizione dei volumi.
Non solo l’idea del vassoio è superata, ma la stessa idea di sezione basta sull’indipendenza di ciascun elemento della macchina urbana è superata.
Anche a una vista superficiale l’intervento richiama non solo la frammentarietà dei complessi dell’edilizia vernacolare ma soprattutto l’influenza dell’architettura tardo-romana e di Villa Adriana. Ormai gli esempi del passato dell’architettura sono tornati a essere indispensabili elementi di raffronto e di ispirazione.


Rossi e i tipi con forma
Le macrostrutture, il tessuto e la scena urbana sono tre approcci che emergono per rispondere all’ormai generalizzata consapevolezza delle difficoltà di creare un vitale ambiente urbano sulla base dei principi del funzionalismo.
Aldo Rossi nel 1966 scrive un libro da titolo “L’architettura della città”. Sin dal titolo pone con chiarezza il problema. La crisi di fronte agli architetti della sua generazione è quella della città che il funzionalismo non è stato in grado di affrontare. Lui sviluppa la propria costruzione teorica in una serie di argomentazioni chiave.
La prima è la nuova centralità e la forza autonoma che attribuisce alla forma architettonica. La città non è quindi tema da affrontare con logiche economiche né con ragionamenti meccanici.
Riacquisita centralità alla forma e alla memoria storica, il secondo punto è a proposizione di due coppie di termini. Sono la dualità monumento-tessuto e soprattutto quella morfologia-tipologia.
Le costruzioni di Rossi in questi anni sessanta sono poche. Per lui ogni architettura è forma, parla di città e lo fa sempre con chiare morfologie e secchi e ripetuti tipi edilizi.
Insomma se è vero che lui ha avuto la lucidità di affrontare il problema e i limiti della città funzionalista, e se è vero che il successo del suo lavoro è anche dovuto all’indubbia consequenzialità della sua logica è anche vero che questo mondo e questa costruzione rappresenta senz’altro un ritorno all’antico.
Rossi apre così la strada a un ventennio di ripensamenti e di arretramenti contraddittoriamente gravitanti sul ruolo della memoria del passato.


Il parricidio kahniano
La ricerca di Luois Kahn è così estremamente funzionale, così disperatamente funzionale da cercare quelle forme assolute e permanenti che rispecchiano nell’intimo le ragioni della funzione e degli uomini di stare insieme.
Anche se Robert Venturi è spesso descritto come un seguace kahniano nei fatti la costruzione venturiana è l’esatto opposto di quella kahniana. In realtà tutta la sua opera è un pervicace necessario parricidio intellettuale.
Se Kahn rivendica l’assoluta corrispondenza tra forma e funzione, Venturi ne dichiara apertamente l’indipendenza, se Kahn vuole che gli elementi costruttivi strutturino lo spazio, Venturi programmaticamente tralascia la costruzione come fatto dell’ingegneria.
Per Kahn la ricerca di significato profondo, ancestrale, radicato nello spessore sociale dello stare, è la vera ricerca dell’order dell’architettura.
Per Venturi una macedonia ammiccante di gusti colti e popolari, opera un ribaltamento completo di valori ma anche di metodo.
L’architettura del modernismo era nata con un’implicita vocazione dottrinaria e didattica.
La chiave di questo processo era la selezione estremamente attenta di una serie di materiali e di modalità operative.


Non è un caso che Venturi usi invece sin nel titolo del suo libro la parola complessità. Per lui i valori, i significati, i materiali devono essere presi invece con assoluta libertà operando a tutto campo in maniera inclusiva.
La ricetta venturiana per fare architettura è diretta. Bisogna creare scatole il più possibili semplici e concentrarsi sul disegno della decorated shed (pelle esterna).
In questo contesto emerge il senso della seconda parola chiave di Venturi: contraddizione.
Le sue architetture vogliono ritrovare il valore iconico di un’immagine nota, fatta di elementi familiari.
L’architettura è fatta per essere fotografata in una posizione chiave, quella della facciata principale. Basta girare l’angolo per vedere la disarmante pochezza dell’insieme.
Venturi attraverso questo libro diventa così un doppio campione: da una parte della sepoltura dei padri del movimento moderno e dell’esperienza nata negli anni venti, dall’altra di un’interpretazione che vede l’architettura in una ricerca formale e in una nuova libertà inclusivita di azione.
Sono parole che nel 1966 non erano ancora completamente emerse, ma che diventano la chiave per capire come si evolvono alcuni filoni della ricerca successiva.